La via che non c’è

Testo critico

 

 

La via che non c’è

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Cinque fotografi erranti nell’Appennino bolognese

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Samuele Bianchi, Paola Binante, Alfredo Covino, Pietro D’Agostino e Orith Youdovich si sono mossi all’interno di un ampio territorio guidati in special modo dall’intuizione, dall’anarchia dello sguardo, dalla sensibilità interiore individuale, dall’eros irrazionale della percezione, da una libertà espressiva più filosofica che ideologica e hanno abolito la distanza tra artista e paesaggio, divenendo loro stessi elementi degli spazi che attraversavano. La loro presenza nelle immagini, però, si è manifestata non con la loro apparizione corporea nell’inquadratura quanto piuttosto con l’attivazione di un “modo del vedere” che ha prodotto immagini del tutto (fortunatamente) soggettive. E in tal senso, hanno colto in pieno quanto affermato nel suo libro Il paesaggio – Una storia tra architettura e natura (Einaudi, 2005) da Maurizio Vitta: “Il paesaggio deve essere declinato al plurale, presentandolo come un ventaglio di possibilità, una gamma di sfumature infinite”.

Nelle immagini di Samuele Bianchi l’enigma hegeliano prodotto dall’inspiegabile estetica della natura si è sposato con il concetto di “piega”, con l’idea che lo sguardo possa produrre metafore dell’esperienza percettiva del fotografo in grado di parlarci dei luoghi tramite ciò che non si vede piuttosto che tramite ciò che si vede. Nelle inquadrature di Bianchi tale attenzione a ciò che è occultato ha determinato un’inquietudine compositiva che raffigura pienamente la condizione creativa e intellettuale dell’autore in questione, sempre in bilico tra ricerca della forma e casualità del punto di vista.

(Dal testo critico di Maurizio G. De Bonis, curatore del progetto La via che non c’è)

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